REFERENDUM AMARCORD

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Sono trascorsi poco più di settant’anni da quel primo fondamentale Referendum, che non mise d’accordo la maggior parte degli italiani, perché esclusi i voti di quelli in Libia, oltre quelli delle province di Bolzano, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Zara, sotto occupazione alleata, con uno “Stivale” monarchico dal Lazio in giù e repubblicano dalla Toscana in su. Stando ai risultati ufficiali la contesa si concluse 54,3 a 45,7 per cento, pari a 12.717.923  contro 10.719.284 voti. A Napoli, monarchica per oltre l’ottanta per cento, ci scapparono anche nove morti. Ancora oggi si racconta del rinvenimento di schede votate e non entrate nel conteggio, poi distrutte, di un eccesso di voti calcolati rispetto agli aventi diritto, del non accoglimento di ricorsi che, vagheggiando irregolarità mai sono entrate nella storia, sono comunque rimaste nel mito, di venti di guerra civile, trame dei servizi segreti, minaccia armata ”titina”, piuttosto che disputa tra USA (per la Repubblica) e Inghilterra (per la Monarchia). Adesso, la sfida è su argomenti diversi, ma il clima è sempre fortemente conflittuale e turbato da interferenze mediatiche e sovranazionali, dalle invocazioni alla trasparenza ed alla regolarità della consultazione. Per questo, il mio pensiero ricorre al progresso tecnologico che ha investito in modo globale ogni nostro più intimo momento di vita, meno che due autentici tabù: l’area di porta nel calcio e il voto rigorosamente cartaceo per gli italiani in Patria e all’Estero: se bisogna farsene una ragione, bisognerebbe anche capire quale e perché.